All’ora del Theo

Roberto Beccantini7 ottobre 2021

La Francia è una signora che si pettina davanti a uno specchio che ogni tanto lascia agli avversari: e così 2-0 per il Belgio. Quando però scopre di essere in ritardo, glielo strappa: e così 3-2 per lei. Che partita, allo Stadium. Bellissima. Nel primo tempo, solo Belgio. Subito Lloris strepitoso su De Bruyne, poi meno su Carrasco e ancora meno sul destro di Lukaku. Dominavano, i rossi di Martinez. In difesa, lo scudo di Denayer. In mezzo, la scimitarra di De Bruyne e il fioretto di Hazard. Davanti, Lukaku contro tutti.

E i campioni del mondo? Pogba bloccato, Griezmann sfarfallante, Theo né terzino né ala, davanti al fratello Lucas. Rabiot, destra-sinistra e sinistra-destra: un politico, più che un mediano. Gli unici a sbattersi, Benzema e Mbappé. Vi raccomando la faccia di Deschamps: un professore sfrattato dalla cattedra.

Nations League o no, il calcio è materia liquida. Alla ripresa, il Belgio si appisolava sul dessert. E ronfava così forte da svegliare la bella addormentata. Pogba avanzava il raggio, la squadra tutta cambiava marcia. Gran gol di Benzema, pareggio di Mbappé su rigore «varista» (procurato da Griezmann). La sfida, fin lì giocata dall’uno o dall’altra, diventava di entrambi. Usciva Rabiot, entrava Tchouaméni, un 2000 di mole e di tocco. Un gol di Lukaku cancellato, al video, per questione di centimetri; una traversa scheggiata da Pogba, su punizione. Il massimo del thrilling. E dal momento che era in vena di fare il fenomeno, il destino assegnava l’onore di firmare l’ordalia proprio a colui che i compiti di scuderia avevano ridotto in catene: Theo Hernandez. Un sinistro «alla Milan», secco come una schioppettata, dopo che Mbappé e Benzema avevano limonato con le emozioni. Non tanto nel «particulare», quanto nella ronda notturna.

E allora, domenica, gran finale Spagna-Francia. Con Italia e Belgio a contendersi lo strascico.

Un Bonucci all’improvviso

Roberto Beccantini6 ottobre 2021

Una sera all’improvviso, dopo 37 partite, tre anni e la corona d’Europa. Italia uno Spagna due a San Siro. Sarà, dunque, Luis Enrique a giocarsi la Nations League contro Belgio o Francia. Non Mancini. Non gli eroi di Wembley. Il 6 luglio, in semifinale, le furie ci avevano nascosto il pallone. Le battemmo ai rigori, solo lì, solo così. La Spagna era più incerottata di noi. Però che palleggio, Gavi (classe 2004), e che dribbling, Yeremi Pino (2002).

Partita bella, di duelli rusticani, introdotta dalla doppietta di Ferran Torres, di scuola guardiolesca, e scolpita dal doppio giallo di Bonucci, il capitano. Era il 42’: un disastro, proprio lui che, sullo 0-1, aveva salvato Donnarumma dalla ghigliottina di un pubblico assetato di sangue. I fischi alla marcia reale: verguenza. I fischi al portiere: de gustibus.

La Spagna ha meritato. Ci ha asfaltato a sinistra (Marcos Alonso, Oyarzabal), ha ricavato dal trio d’attacco pressing generoso ed efficace, ha lavorato di fino attorno alla premiata sartoria Busquets. Immobile e Belotti spesso ci dividono, ma giocare senza centravanti è ancora pù «divisorio». Bernardeschi falso nove è sembrato un ripiego, più che un’alternativa. Per una volta, è caduto il centrocampo. Tutti: Barella, Jorginho, Verratti. Confusi, nervosi. Occasioni? Subito una parata di Unai Simon su Chiesa, poi, fra i gol di Ferran Torres, il massimo dell’avanti Savoia: palo di Bernardeschi, erroraccio di Insigne. Troppo poco.

Il gol di Lorenzo Pellegrini, su assist di «Church», appartiene – come i rostri di Chiellini – all’orgoglio della squadra e all’unica macchia di un avversario che già in parità numerica aveva sequestrato il centro del ring, anche grazie agli itinerari di Sarabia, figuriamoci in undici contro dieci. Mancini avrebbe potuto anticipare le staffette, perché no, ma credo che la sentenza l’abbiano firmata i toreri di Spagna. Olé. Felice per Luis Enrique, uomo grande.

Napoli contro Milano

Roberto Beccantini3 ottobre 2021

Napoli contro Milano. Non ancora una sentenza, ma una traccia che porta lontano: e lontano da chi insegue. Sabato, l’Inter aveva rimontato il Sassuolo. Un rosso non dato a Handanovic, poi la solita ripresa e i soliti cambi: Dzeko, gol e rigore. Non è Lukaku, ma 6 reti in sette partite aiutano a sentirsi forti. O i più forti.

Sette su sette, il Napoli. Spalletti ha raffinato l’eredità di Gattuso. Veniva dalla botta con la Spartak, Firenze è campo minato, ha reagito di forza al guizzo di Martinez Quarta. La dorsale Koulibaly-Anguissa-Osimhen funziona. Osimhen è un centravanti che avvicina il passato al futuro. Nei casi d’emergenza, lancio lungo. Ci pensa lui. Va via di fisico, ti sradica o ti costringe al penalty (Martinez Quarta, again). Limpida la genesi, tribolato il resto: doppia parata di Dragowski su Insigne e rasoiata laterale di Lozano.

Dopodiché: o i calci piazzati (sono già sette, l’ultimo «tradotto» da Rrahmani) o il palleggio degli elfi: Insigne, Lozano, Politano, Ounas, il redivivo Mertens. Per tacere, in mezzo, dei violini di Zielinski e Fabian Ruiz. Ovunque, indizi di maturità.

Rimane il Milan. Non ha fatto respirare un avversario che, di solito, non ti fa respirare. Ha vinto per questo, a Bergamo. Gol-lampo di Calabria, su tocco di Theo e leggerezza di Musso, «rapina» di Tonali a Freuler, raffica di Leao. In mezzo, briciole di vecchia Atalanta, con «Maignarumma» provvidenziale su Zappacosta e Zapata. I moccoli di Gasp, già: ma il Papu non c’è più, Pessina è andato k.o. e Ilicic non c’è ancora. Hai voglia. Il 3-2 a referto, siglato da un rigore di Zapata, il migliore, e dal fioretto di Pasalic, è falso. Pioli ha moltiplicato i primi 20’ anti Atletico. La mobilità di Brahim Diaz; i cingoli di Theo; un Kessié meno distratto e il Tonali che mi aspettavo: nessuno nasce imparato, nulla cresce per caso. I 40 anni e le ferite di Ibra sembrano un segno dei tempi, non più del destino.